IL TRIBUNALE Riunito in camera di consiglio ha pronunziato la seguente ordinanza sull'appello proposto dal procuratore della Repubblica presso il tribunale di S. Maria Capua Vetere (Caserta) avverso l'ordinanza n. 787/1993 datata 12 maggio 1993, con la quale il giudice per le indagini preliminari del tribunale di S. Maria Capua Vetere ha rigettato la richiesta di sequestro preventivo formulata dal pubblico ministero nei confronti di Iovinella Salvatore, nato ad Atella di Napoli l'11 dicembre 1942 e residente a S. Arpino (Caserta), via Martiri Stellani, seconda traversa, n. 23, indagato per il reato di cui all'art. 12-quinques legge 7 agosto 1992, n. 356 e successive modifiche; Letti gli atti ed i motivi dell'appello, presentato dal procuratore della Repubblica presso il tribunale di S. Maria Capua Vetere, a norma dell'art. 322-bis del c.p.p.; Sentiti all'udienza camerale dell'8 giugno 1993, alla quale il pubblico ministero non e' comparso, l'indagato Iovinella Salvatore ed il difensore, avvocato Alessandro Tinto, il quale concludeva per il rigetto dell'appello del pubblico ministero; A scioglimento della riserva formulata all'udienza camerale dell'8 giugno 1993. F A T T O In data 6 maggio 1993, il procuratore della Repubblica presso il tribunale di S. Maria Capua Vetere (Caserta) richiedeva al g.i.p. l'emissione di decreto di sequestro preventivo di un immobile e di un appezzamento di terreno di proprieta' dell'indagato Iovinella Salvatore, registrati alla Conservatoria dei registri immobiliari di Napoli II in data 6 gennaio 1974, al n. 2388. A sostegno della richiesta il pubblico ministero evidenziava che nei confronti dell'indagato pendeva procedimento penale per il reato di contrabbando di tabacco lavorato estero in grossi quantitativi, nonche' la "sproporzione" tra gli immobili posseduti ed i redditi dichiarati. Con ordinanza n. 787/1993 del 12 maggio 1993, il giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di S. Maria Capua Vetere (Caserta) rigettava la richiesta del pubblico ministero, ritenendo che non sussistevano i presupposti di cui all'art. 12 quinques e suc- cessive modificazioni, in quanto il valore dei beni de quibus non risultava "sproporzionato" rispetto al reddito dell'indagato, avuto riguardo a quanto evidenziato nell'informativa inoltrata dalla guardia di finanza. Avverso la citata ordinanza di rigetto il procuratore della Repubblica presso questo tribunale ha proposto tempestivo e rituale appello, contestando, nel merito, l'asserita mancanza di "sproporzione" tra il reddito dell'indagato ed il costo per l'acquisto della sua abitazione e, in diritto, l'irrilevanza di un immediato collegamento cronologico tra i proventi dell'attivita' criminosa (accertati in data 27 agosto 1992) e l'acquisto dell'abitazione dell'indagato, risalente al 1973. Il pubblico ministero ha altresi' dedotto che, con la norma incriminatrice di cui all'art. 12-quinquies della legge 7 agosto 1992, n. 356, cosi' come modificato dall'art. 5, lettera a), d.l. 20 maggio 1993, n. 153, "il legislatore ha inteso sanzionare con la pena della reclusione e la misura di sicurezza della confisca la mera disponibilita' di qualsiasi bene patrimoniale sporporzionato rispetto al reddito ed all'attivita' economica, ritenendo che tale status sia, di per se' antigiuridico". All'udienza camerale dell'8 giugno 1993, alla quale il pubblico ministero non e' comparso, il difensore, avvocato Alessandro Tinto, ha concluso per il rigetto dell'appello del pubblico ministero ed il tribunale si e' riservato la decisione. D I R I T T O Pregiudiziale all'esame del dedotto gravame risulta - ad avviso del collegio - l'indagine sulla costituzionalita' del combinato disposto degli artt. 321 e 324 del codice di procedura penale e la verifica se esso contrasti con gli artt. 24, 42, 97 e 111 secondo comma della Costituzione, nella parte in cui, cosi' come affermato dal diritto vivente attualmente formatosi, prevede che il tribunale del riesame, allorquando decide, a norma dell'art. 324 del c.p.p., in ordine all'impugnazione di misure coercitive reali, debba "limitarsi a valutare l'astratta possibilita' di sussumere il fatto attribuito ad un soggetto in una determinata ipotesi di reato" e che "ai fini della doverosa verifica della legittimita' del provvedimento con il quale sia stato ordinato il sequestro preventivo di un bene pertinente ad uno o piu' reati, e' preclusa al tribunale del riesame ogni valutazione sulla sussistenza degli indizi di colpevolezza e sulla gravita' degli stessi" (cosi' testualmente Cass. pen., ss.uu., n. 4, 23 aprile 1993, cc. 25 marzo 1993, imp. Gifuni). Il combinato disposto degli artt. 321 e 324 del c.p.p., cosi' come autorevolmente interpretato dal diritto vivente, inibisce a questo tribunale - nel caso di specie - ogni possibilita' di apprezzamento in ordine alla concreta (e non gia' "astratta") sussistenza o meno a carico dello Iovinella di gravi indizi di colpevolezza del reato di cui all'art. 12-quinquies della legge 7 agosto 1992, n. 356, cosi' come modificato dall'art. 5, lettera a), del d.l. 20 maggio 1993, n. 153; donde la rilevanza della dedotta questione di incostituzionalita'. Nella fattispecie, a norma dell'art. 335 del c.p.p., il pubblico ministero ha iscritto nei confronti dell'indagato Iovinella Salvatore notizia di reato per contrabbando di tabacco lavorato estero, a seguito di informativa di reato del comando compagnia guardia di finanza di Teverola (Caserta). Cio' non solo ha provocato, per l'automatismo normativo previsto dall'art. 12-quinquies della legge 7 agosto 1992, n. 356, cosi' come modificato dall'art. 5, lettera a), del d.l. 20 maggio 1993, n. 153, l'iscrizione nel registro previsto dall'art. 335 c.p.p. anche di quest'ultima notizia di reato, ma ha legittimato la richiesta del pubblico ministero di sequestro dell'immobile di proprieta' dell'indagato, ipotizzando la "disponibilita', da parte dell'indagato di un bene patrimoniale sproporzionato rispetto al reddito ed all'attivita'a' economica". Con ordinanza del 12 maggio 1993, il g.i.p. di questo tribunale ha rigettato la richiesta di sequestro del pubblico ministero, ritenendo che "non sussiste il presupposto di cui all'art. 12-quinquies della legge 7 agosto 1992, n. 356, cosi' come modificato dall'art. 5, lettera a), del d.l. 20 maggio 1993, n. 153, in quanto il valore dei beni de quibus non risulta sproporzionato rispetto al reddito dell'indagato, avuto riguardo a quanto evidenziato nelle informative inoltrate dalla guardia di finanza". Il pubblico ministero presso questo tribunale, a norma dell'art. 322-bis del c.p.p., in data 18 maggio 1993 ha proposto appello a questo tribunale, sezione riesame, insistendo per l'applicazione della misura coercitiva reale nei confronti dell'indagato Iovinella, contrastando l'asserita mancanza di "sproporzione" tra il reddito dell'indagato ed il valore dell'immobile di sua proprieta', nonche' l'irrilevanza della verifica del collegamento temporale fra il momento di acquisizione del bene immobile e l'epoca in cui si sarebbe verificato il reato di contrabbando contestato all'indagato, sol perche' lo stesso risulta ricompreso nel novero dell'art. 12-quinquies, secondo comma della legge 7 agosto 1992, n. 356, cosi' come modificato dall'art. 5, lettera a), d.l. 20 maggio 1993, n. 153. E' evidente che la contrapposizione delle tesi sostenute dalle parti in ordine alla sussistenza o meno della predetta "sproporzione", richiederebbe preliminarmente ed indefettibilmente che questo tribunale del riesame, al fine di applicare o meno l'invocata misura coercitiva reale, non si limitasse a valutare meramente l'astratta possibilita' di assumere il fatto attribuito all'indagato in una determinata ipotesi di reato, ma compisse una doverosa ed analitica verifica della fondatezza dell'appello del pubblico ministero, con il quale e' stato richiesto il sequestro preventivo dell'appartamento dello Iovinella. Tutto cio' e' espressamente inibito a questo tribunale del riesame dall'art. 321 del c.p.p., cosi' come espressamente interpretato dal diritto vivente, in base al quale, in sede di riesame di misure cautelari reali "e' preclusa al tribunale ogni valutazione sulla sussistenza degli indizi di colpevolezza e sulla gravita' degli stessi" (cosi' testualmente cass. pen., ss.uu., n. 4, 23 aprile 1993, cc. 25 marzo 1993, imp. Gifuni). Gia' sulla base delle suesposte motivazioni, il tribunale ravvisa la rilevanza e la non manifesta infondatezza di una prima questione di legittimita' costituzionale, per contrasto del combinato disposto degli artt. 321 e 324 del c.p.p. con: a) l'articolo 24 della Costituzione, per il sacrificio imposto, senza alcun ragionevole bilanciamento, al diritto di difesa dell'indagato (che, a norma dell'art. 61 del c.p.p., deve godere dei medesimi diritti e garanzie poste a favore dell'imputato), per l'irrilevanza di qualsiasi sua concreta difesa nel merito (sia pure ad onere di prova invertito), dovendosi il tribunale del riesame, de iure condito, limitare ad una mera "astratta" verifica cartolare della correlazione fra la rubrica del reato presupposto, l'avvenuta iscrizione della notizia di reato nel registro previsto dall'art. 335 del c.p.p. ed - infine - della sua sussumibilita' in una delle ipotesi di reato previste dall'art. 12-quinquies della legge 7 agosto 1992, n. 356, cosi' come modificato dall'art. 5, lettera a), del d.l. 20 maggio 1993, n. 153, astenendosi da ogni valutazione sulla concreta sussistenza di indizi di colpevolezza, nonche' sulla gravita' degli stessi; ed invero, le garanzie difensive apprestate dall'ordinamento non possono scendere al di sotto di quei minimi livelli previsti anche nei procedimenti incidentali, se non con la inevitabile conseguenza di essere negate; b) gli artt. 97 e 111, primo comma della Costituzione, perche' e' contrario ai principi di buon andamento dell'amministrazione giudiziaria impiegare un organo giurisdizionale in un'operazione burocratica di mera ratifica, che si colloca al di fuori delle garanzie del contraddittorio e dell'obbligo di motivazione sulle deduzioni, in punto di diritto e di fatto, prodotte dalle parti, nonche' dell'obbligo di verifica della sussistenza degli indizi di colpevolezza del reato ascritto all'indagato e della gravita' degli stessi; elementi di giudizio, questi che, alla luce dei parametri costituzionali suindicati, non possono e non debbono mancare, nemmeno in un procedimento incidentale giurisdizionale di natura penale. In particolare, nella fattispecie, a norma dell'articolo 2727 del c.c., e' consentito a questo tribunale "presumere", cioe' trarre delle conseguenze da un fatto noto per risalire ad un fatto ignorato. Nel caso in esame, pero', l'art. 321 del c.p.p., per cosi' come interpretato dal diritto vivente, impedisce a questo tribunale del riesame proprio di "presumere"; cioe' accade che, in un "procedimento di sospetto", qual e' quello di cui all'art. 12-quinquies della legge 7 agosto 1992, n. 356, cosi' come modificato dall'art. 5, lettera a), del d.l. 20 maggio 1993, n. 153, che puo' sfociare in attivita' giurisdizionale suscettibile di incidere negativamente nella sfera patrimoniale del cittadino indagato, un provvedimento giurisdizionale non deve essere motivato ne' in ordine alla sussistenza degli indizi di colpevolezza, ne' in ordine alla gravita' degli stessi. Viceversa, ad avviso di questo giudice remittente, non puo' e non deve essere vulnerato il principio costituzionale che vuole che tutti i provvedimenti giurisdizionali debbano essere motivati. Infatti, a norma dell'art. 111 della Costituzione, devono sempre essere esternate (anche nelle ordinanze del tribunale del riesame) le ragioni per le quali si fa luogo o meno alla compressione di un diritto soggettivo, costituzionalmente tutelato, qual e' il diritto di proprieta'. Il giudice remittente chiede, in altri termini, l'affermazione del principio che anche nel procedimento incidentale di riesame di misure coercitive reali, non soltanto deve essere data all'indagato la concreta possibilita' di difendersi, deducendo fatti e circostanze, ma che il tribunale del riesame deve avere il potere-dovere di accogliere, ovvero di disattendere le prospettazioni delle parti, qualora ritenute non significative o fuorvianti, dandone pero' puntuale giustificazione con una motivazione che sia "concreta" (e non gia' "astratta"), contrariamente a quanto attualmente previsto dal combinato disposto delle norme denunciate (artt. 321 e 324 c.p.p.). Tutto cio' - ad avviso del tribunale - e' il fine della motivazione di qualunque provvedimento giurisdizionale; quello, cioe', di comprovare l'osservanza, fra l'altro, dei canoni di logica e d'imparzialita' e di darne contezza al cittadino ed, eventualmente, al giudice di legittimita' chiamato a sindacarne i contenuti; c) l'art. 42 della Costituzione, per essere prevista una limitazione del diritto di proprieta', al di fuori degli scopi e della funzione di cui alla riserva di legge contenuta nel secondo comma del citato art. 42 della Costituzione. Si noti, infatti, che l'art. 832 del codice civile, definisce la proprieta' come "il diritto di godere e di disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l'osservanza degli obblighi stabiliti dall'ordinamento giuridico". A differenza dello statuto albertino, che all'art. 29 stabiliva che "tutte le proprieta', senza alcuna eccezione, sono inviolabili", l'art. 42 della Costituzione ha previsto che "la proprieta' e' pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati. La proprieta' privata e' riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento ed i limiti, allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. La proprieta' privata puo' essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d'interesse generale. La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria ed i diritti dello Stato sulle eredita'". Dal che discende che e' proprio la stessa Costituzione che ha fissato i limiti e le finalita' attraverso le quali e' consentito al legislatore delimitare - o addirittura sacrificare - l'esercizio del diritto di proprieta'. Posto che quello di proprieta' e' un diritto soggettivo, la sua tutela, oltre ad essere garantita dall'art. 42 della costituzione, e' espressamente disciplinata dalle norme del libro sesto del codice civile. Vero e proprio principio di civilta' giuridica e', poi, quello fissato dall'art. 2697 del c.c., in base al quale "chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento". Nel caso di specie, l'inversione dell'onere della prova, che l'art. 12-quinquies della legge 7 agosto 1992, n. 356, cosi' come modificato dall'art. 5, lettera a), del d.l. 20 maggio 1993, n. 153, ha trasferito dal titolare dell'accusa, e dal giudice - che ne deve verificare la sussistenza - a carico di colui che, avendo assunto la qualita' di "indagato", ovvero di persona "nei cui confronti pende procedimento penale", si pone - ad avviso del tribunale, in contrasto con i canoni costituzionali. Dal che discende la non manifesta infondatezza di un ulteriore profilo di illegittimita' costituzionale, rilevante nel presente giudizio, e cioe' il contrasto dell'art. 12-quinquies della legge 7 agosto 1992, n. 356, cosi' come modificato dall'art. 5, lettera a), del d.l. 20 maggio 1993, n. 153 con: a) gli artt. 3 e 24 della Costituzione, per l'ingiusta compressione del diritto di difesa dell'indagato per il delitto previsto dalla norma denunciata. Essa si configura - infatti - come un reato a condotta mista, prima commissiva (possesso o disponibilita' di beni di valore sproporzionato all'attivita' svolta e a redditi dichiarati), poi omissiva (mancata giustificazione del possesso legittimo dei beni, strettamente connessa all'inversione dell'onere della prova), cosicche' il diritto di difesa risulta compromesso, non potendo l'indagato, diversamente da tutti gli altri indagati, esercitarlo anche a mezzo del silenzio che, al contrario, nella fattispecie integra proprio uno degli elementi oggettivi del reato di cui all'art. 12-quinquies della legge 7 agosto 1992, n. 356 e successive modificazioni. La norma denunciata realizza, pertanto, una disparita' di trattamento tra gli indagati per il reato di cui all'art. 12-quinquies, i quali non possono avvalersi della facolta' di non rispondere e gli indagati per gli altri reati. In buona sostanza, pur essendo la qualita' specifica di "indagato" ovvero di "persona nei cui confronti pende procedimento penale", necessariamente destinata ad evolversi nel procedimento, la norma incriminatrice prescinde totalmente dall'instabilita' processuale in itinere, che caratterizza l'elemento soggettivo del reato, confliggendo apertamente con il principio di ragionevolezza e logicita', garantito dall'art. 3 della Costituzione, a fronte dei diversi esiti processuali del reato presupposto (assoluzione/condanna). D'altra parte, proprio perche' la norma denunciata non esige la condanna per i reati presupposti, che sottenderebbero delittuosi trasferimenti di ricchezze, ma unicamente la sottoposizione a siffatti procedimenti, la mancata giustificazione della legittima accumulazione patrimoniale comporta che la condanna per il reato di cui all'art. 12-quinquies derivi non gia' dall'impulso del pubblico ministero nella ricerca delle prove, bensi' da una condotta che la Costituzione garantisce ad ogni imputato, attraverso il diritto di difesa (art. 24, secondo comma) e la presunzione di non colpevolezza (art. 27, secondo comma); b) l'art. 27 della Costituzione, configurando la norma in esame una ipotesi di reato proprio, ancorata alla qualita' transitoria e neutra di "indagato", ovvero di "coloro nei cui confronti pende procedimento penale", secondo la novella introdotta dal d.l. 20 maggio 1993, n. 153, per una delle ipotesi delle fattispecie di cui al secondo comma della norma denunciata. Tale qualita', a differenza di quella del soggetto nei cui confronti e' stata emessa sentenza di condanna o e' stata applicata una misura di prevenzione personale, passate ingiudicato, ha carattere tutt'altro che definitivo e non dovrebbe avere alcuna rilevanza giuridica, attesa la presunzione di innocenza di cui all'art. 27 della Costituzione. A riprova di cio' si consideri anche che, in concreto, puo' verificarsi, in assenza di un preliminare accertamento della sussistenza dei "gravi indizi di colpevolezza", inibito proprio dall'art. 321 c.p.p. (a sua volta dianzi denunciato), che in un momento successivo all'eventuale condanna per il reato di cui all'art. 12-quinquies della legge 7 agosto 1992,, n. 356, cosi' come modificato dall'art. 5 lettera a) del d.l. 20 maggio 1993, n. 153, e' possibile la caducazione dello status di "indagato" o, comunque, di soggetto "nei cui confronti pende procedimento penale", presupposto necessario per configurare il reato stesso, cosi' realizzandosi l'adozione di un'illegittima misura ante delictum. Giova ricordare che di tanto erano ben consapevoli i Ministri pro- tempore dell'interno e di grazia e giustizia, i quali introdussero il reato come emendamento in fase di legge di conversione. Infatti negli atti parlamentari del Senato della Repubblica - Assemblea (resoconto stenografico della seduta pomeridiana del 23 luglio 1992) si legge: "Certo, in quest'ultimo caso dobbiamo convenire che si realizza un ribaltamento di uno dei principi generali in materia di prove, dal momento che e' lo stesso soggetto a dovere dimostrare la provenienza e la natura lecita delle sue sostanze per non incorrere in sanzioni penali .." (Ministro Mancino); " .. So bene che si agisce qui su un terreno difficile e delicato per i poteri conferiti alle pubbliche autorita' di incidere sui diritti e sui beni della persona, prima ancora che rigorosi accertamenti probatori si siano compiuti in sede giudiziaria .." (Ministro Martelli). Ed invero, essendo punito, se non giustifica la legittima provenienza dei beni, l'indagato per il delitto di cui all'art. 12-quinquies della legge 7 agosto 1992, n. 356 (cosi' come modificato dall'art. 5 lettera a) del d.l. 20 maggio 1993, n. 153) e' obbligato, a fronte della ritenuta sproporzione dei beni, ad attivarsi per dimostrare la propria innocenza, contraddicendo il suo legittimo diritto di non rispondere e di non collaborare, dovendo l'accusa essere suffragata dal pubblico ministero che l'allega. Del resto la Corte costituzionale, gia' con la sentenza n. 100/1968 dichiaro' incostituzionale l'art. 708 del codice penale, perche' contrastante con l'art. 3 della Costituzione, nella parte in cui faceva richiamo, per l'imputato, alle condizioni personali di condannato per mendicita', di ammonito, di sottoposto a misure di sicurezza personale, o a cauzione di buona condotta, attesa la diversita' di situazioni soggettive nelle quali possono venire a trovarsi i cittadini sottoposti a cosi' variegate condizioni personali. Nel caso di specie, le osservazioni ed i rilievi che la Corte costituzionale formulo' rispettivamente per escludere l'illegittimita' costituzionale dell'art. 708 del codice penale con riferimento a coloro che avevano gia' riportato condanna per reati contro il patrimonio e per ritenerla, invece, con riguardo alle altre categorie di soggetti, sembra si attaglino perfettamente alla previsione della norma incriminatrice di cui all'art. 12-quinquies della legge 7 agosto 1992, n. 356, cosi' come modificato dall'art. 5 lettera a) del d.l. 20 maggio 1993, n. 153, e - pertanto - ne confermano e ne rafforzano il sospetto di incostituzionalita'. E' indubitabile, alla stregua delle suesposte motivazioni, la rilevanza delle dedotte questioni di illegittimita' costituzionale, dovendo questo tribunale decidere sull'appello del Procuratore della Repubblica presso il tribunale di S. Maria Capua Vetere (Caserta) e - pertanto - verificare concretamente la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza nei riguardi dell'indagato. E' altresi' in re ipsa la non manifesta infondatezza delle dedotte questioni di illegittimita' costituzionale, a dimostrazione delle quali si richiamano, oltre alle motivazioni dianzi esposte, anche quelle contenute nelle ordinanze di remissione che hanno denunciato il sospetto di incostituzionalita' di alcune delle medesime norme, ed in particolare le ordinanze datate 17 febbraio 1993 (in Gazzetta Ufficiale, prima serie speciale anno 1993, n. 19) e 22 febbraio 1993 (in Gazzetta Ufficiale, prima serie speciale anno 1993, n. 21) della Corte suprema di cassazione e quelle datate 2 novembre 1992 (in Gazzetta Ufficiale, prima serie speciale anno 1993, n. 5) e 12 novembre 1992 (in Gazzetta Ufficiale, prima serie speciale anno 1993, n. 19) del tribunale di Salerno, rispettivamente iscritte nel registro degli atti di promovimento del giudizio della Corte costituzionale, anno 1993, ai nn. 228, 207, 21 e 198.